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Avrò cura di te

DI PAOLA DE PAOLIS FOGLIETTA

Sfogliando il quotidiano rimango catturata da un articolo di Luigi Ripamonti, giornalista e medico, che cura la pagina di dossier salute del Corriere. Spesso il giornalista fa da moderatore ai vari convegni che si tengono alla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus di Milano, che vertono sulla relazione e cura tra il medico e il malato, e la qualità relazionale tra medico e paziente pediatrico.

Il sunto di questi convegni è di grande interesse per chi si occupa di professioni in cui la relazione d’aiuto e la comunicazione empatica stanno alla base per il successo umano e professionale. Innanzitutto Ripamonti illustra come la medicina sia passata da una visione “paternalistica” a una “condivisa” in cui il malato viene adeguatamente informato sulle necessità mediche e deve prendere parte alle decisioni sulla cura. Il difficile compito del medico è quello di trovare un equilibrio fra un’onesta informazione, che deve comunicare l’incertezza (il medico non ha la sfera di cristallo) e infondere allo stesso tempo la dose di fiducia necessaria nella terapia.

“Per uscire dall’empasse si dovrebbe forse ricorrere di più al colloquio con il paziente, che è differente dalle domande che gli si pongono durante l’anamnesi e può aprire un circuito di comunicazione differente – propone Michele Oldani, sociologo, psicanalista- L’arte della cura è tale quando trova un percorso assolutamente soggettivo di relazione e comunicazione”.

“molti pazienti che abbiamo incontrato ci hanno detto che la malattia era stata per loro un’opportunità per riscoprire valori importanti e vivere più pienamente l’esistenza. Conducendo una ricerca sul tema abbiamo riscontrato che questa capacità dipendeva da molti fattori, ma uno dei più rilevanti era la qualità della relazione con i medici”.

Oggi avvertiamo la necessità di coltivare relazioni più evolute possibili soprattutto nel doloroso frangente della malattia, perché ci si è resi conto che la qualità relazionale incide -anche in ambito medico- con il beneficio delle cure e permettono una minore incidenza di recidive, e di conseguenza una minore incidenza economica.

Luglio scorso a Ponsacco sono state discusse diverse tesine che concludevano il percorso triennale di counseling, di infermiere e operatrici in ambito ospedaliero, che raccontavano in modo straordinariamente toccante come il loro percorso di studio ed esperienza le avesse aiutate ad entrare nella giusta empatia con i piccoli/grandi pazienti che trattavano. Se, come spiega Patanjali nella sua opera, l’osservatore condiziona l’osservato, così la nostra libertà interiore e la nostra compassione scevra da attaccamenti, potrà “guarire” le persone che abbiamo intorno, non in un miraggio di onnipotenza, in una prospettiva ego-centrata, bensì con un’attitudine di servizio, di donazione e cura, nell’umile consapevolezza di noi stessi. Se il nostro ego rimpicciolisce, lo spirito troverà più spazio per estendersi ed agire e se è lo spirito che ci fa agire allora non sarà la nostra bravura a fare cose grandi, ma è quell'essenza spirituale e divina che vive in noi. E poi accade quella cosa miracolosa: il malato a sua volta, con la sua forza interiore, può “guarire” chi lo sta curando.

Lavoro da diversi anni in un ospedale, in ambito amministrativo, relativo alla prevenzione dei fondi integrativi sanitari così in espansione grazie alla politica del welfare, ma anche se non tocco con mano la malattia sono in contatto diretto con le persone, che per me si chiamano “assistiti” o clienti e diventano “pazienti” davanti al medico. Questa esperienza mi ha portato ad osservare e capire quanto l’empatia sia già il presupposto di cura fondamentale per la guarigione, poiché crea quel necessario clima di fiducia che permette al paziente di “farsi guarire” e a volte viene dimenticata; la sanità diventa un gigantesco meccanismo irretito dal budget e da realistiche preoccupazioni economiche, dimenticando che a guarire non sono solo farmaci e/o bravi chirurghi.

Se ci è mai capitato di finire in ospedale come degente sappiamo quanto è stato importante aver trovato qualcuno che non eseguiva solamente il lavoro per cui era pagato, ma prestava attenzione e ascolto rendendo il suo lavoro la sua missione.