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Andare oltre l’ordinario, per scoprire lo straordinario in noi

DI PAOLA DE PAOLIS FOGLIETTA


Siamo presenti in questa vita con un permesso di soggiorno che ha una scadenza variabile per ogni persona.
Forse è questo che ci obbliga e ci rende schiavi del significato. Dobbiamo trovare un significato, dobbiamo dare un senso, creare un progetto, identificarci con dei valori, dare un nome a tutto.

Non dico che non sia giusto, anzi sono una sostenitrice del progetto, dello scopo e della direzione. Se non mi pongo una sfida quotidiana non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto alla mattina. Sono succube dello scopo. I miei scopi, inoltre, hanno sempre un certo sapore estraneo e straordinario. Se non è straordinario non mi interessa. Per straordinario non mi riferisco per forza a polvere di stelle, viaggi intergalattici, comunicazioni con esseri lontani o disincarnati, amore fusionale, samadhi senza fine in cui perdersi è l’unica condizione necessaria per ritrovarci e definirci. Sì, anche questo, ma straordinario per me oggi è andare oltre l’ordinario, il consueto, l’aspettato.
Come si fa a vivere nello “straordinario” senza rimbalzare da un’illusione a un’altra?
Vivere nelle emozioni, non travolti dalle emozioni, ma entrare in contatto con il nostro mondo interiore è entrare in contatto con lo straordinario.
Nell’ultimo seminario in cui sono state presentate le tesine di fine corso (14 e 15 Luglio 2018) e dagli insegnamenti di Marco Ferrini, ho compreso che essere counselor diventa uno strattagemma per mantenere alto il nostro stato di coscienza. Bisogna essere counselor tutti i giorni in ogni istante. Il centro studi Bhaktivedanda aiuta in questo obbiettivo.
Essere counselor significa essere presenti. Quando reagiamo a una provocazione, quando ci facciamo trascinare dalla nostra mente reattiva o siamo travolti da una passione o da una dipendenza, significa che ci siamo distratti e abbiamo perso il nostro stato di coscienza di persona “sveglia”. A volte mi dico che bisogna essere sempre molto riposati per ascoltare, non farci agganciare dalle provocazioni oppure non identificarci con mantra negativi che costellano la nostra mente. Non è solo una questione di riposo, che certo aiuta, ma di presenza, di volontà di presenza. È il lavoro da fare.
Poniamo che arrivi una persona che racconti cose della sua vita e alcune di queste attivano delle emozioni dentro di noi legate al nostro vissuto particolare. In questo momento la nostra presenza diventa più fragile, perché le nostre emozioni fanno strage dei nostri buoni propositi. Cosa fa il counselor? Ascolta e chiede a sé stesso: come si chiama questa emozione? Dove la sento? Cosa mi ricorda? Che bisogno nasconde? Così si può riprendere il timone di sé stessi, senza agitazione. Per me sta diventando un’abitudine. Una necessità per la sopravvivenza.
Osservare le presentazioni delle tesine mi ha fatto riflettere sulla padronanza di sé , come sinonimo di elevato grado di coscienza. Per tale ragione questa non è solo un’eventuale professione , ma uno stile di vita.
Tanto più nell’esposizione delle tesi c’era un’elaborazione esperienziale, basata sull’ascolto delle proprie dinamiche emotive, tanto più quelle esposizioni avevano qualcosa di straordinario.
Quando si entra in contatto con la parte profonda di sé, tutto quello che si fa diventa miracoloso.
Riprendere il proprio potere personale, lasciare sviluppare il proprio daimon, diventare chi siamo, fare scelte coraggiose e giuste nella nostra vita, nella libertà e nell’autenticità; attraversare il fiume Iabbok come Giacobbe nella sua lunga lotta nella notte oscura dell’anima.
Proviamo questa avventura, prima che ci scada il permesso di soggiorno.