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Ange Fey, professione accompagnatore alla morte: «Il mio mestiere è “essere lì”»

Si chiama Ange Fey, è nato nel 1962 a Parigi, e nel nome, Angelo in francese, c’era già il suo destino, però al contrario. Lui non è l’angelo della morte degli ebrei e dei musulmani, anche se svolge una professione senza eguali in Italia: accompagnatore alla morte. Se gli chiedi a quanti agonizzanti è stato vicino, un lampo di smarrimento gli attraversa gli occhi azzurri: «Non lo so, non lo so». Nel 2022 sono stati uno al mese, meno del solito, e il 2023 è già fitto di conferenze che lo impegneranno parecchio (Savona, L’Aquila, Alessandria, Cesena, Treviso, Sperlonga), tutte sul tema «Comprendere la morte, accompagnare la vita». Ma c’erano anni in cui ne assisteva il doppio, per cui si suppone che dal 1987 abbia raccolto l’ultimo respiro di almeno mezzo migliaio di persone. Fey abita ad Andrate (Torino). Nel 1997 ha fondato ad Aosta una onlus, Il bruco e la farfalla, per stare accanto alle persone in fin di vita. «Preparo medici, psicologi, ostetriche, infermieri, ma anche la signora Maria». Quando vigeva l’obbligo d’indicare la professione sulla carta d’identità, era in imbarazzo: «Accompagnatore ricordava una escort. Ho preferito formatore. Uno psichiatra argentino mi ha definito carontologo. Come il mitologico Caronte, traghetto all’altra riva».

Perché scelse questo mestiere?
«Il primo libro che lessi per intero, a 17 anni, era Mourir n’est pas mourir di Isola Pisani. Avrei dovuto capire allora che c’era una qualche malattia dentro di me. Sentivo parlare del bruco sgraziato che si trasforma in farfalla meravigliosa, ma nessuno mi spiegava come finisce la farfalla. È meno romantico, no? Così cominciai a studiare le capacità di cambiamento dell’essere umano, la psicologia applicata, le tecniche alfageniche di rilassamento, la sofrologia».

Come divenne accompagnatore?
«Mi chiamavano in ospedale per i parenti in fin di vita. Un infermiere di malattie infettive mi disse: “Un ragazzo sta morendo. È solo. Ha chiesto di avere accanto qualcuno. Te la senti? Ha 28 anni”. Io ne avevo 25, ero sconvolto. Allora non si parlava di Aids. Mi trovai in mezzo a un’ecatombe. Una paziente che avrà avuto l’età di Asterix mi guardò sorridendo: “Ho un morbo che non va di moda”. Per gli oncologici c’erano varie associazioni, per lei nessuna. Come mai ci si prende cura di chi nasce ma non di chi muore? Eppure la morte non è una malattia».

In pratica che cosa fa?
«Non c’è tecnica. Porto me stesso. Mi hanno definito “esserelista”, perché il mio lavoro è “essere lì”. Gli infermieri in ospedale corrono, corrono. Al mattino mi chiedono: “Ma lei che fa?”. La sera mi dicono: “Ah, lei dà la mano”. È come mettere l’indice sulla culla di un neonato: lo afferra subito. Una persona in coma ti prende la mano e la tiene stretta».

Chi la chiama al capezzale?
«Le famiglie. Spesso gli stessi malati terminali. Vado più nelle case, che negli ospedali. Non so mai che cosa succederà. Il primo incontro dura tre ore: devo capire se servo. In media rimango 15 giorni. Ma a una donna affetta da mieloma, alla quale avevano dato sei mesi di vita, sono stato accanto per quasi 7 anni».

Applica un protocollo?
«Non c’è regola. Me ne occupo e basta, non so come. Arrivo in una casa e ignoro se potrò essere utile. Non sono un infermiere, non sono un medico. Semplicemente sono “pronto a”. Riattivo le risorse intorno alle persone agonizzanti. I parenti non sanno neppure che esiste la legge sulle Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento. Chiedo: se sopraggiunge una crisi respiratoria, che facciamo? Rianimiamo o no? Alimentiamo o no? Immagini sua madre che sta morendo. Non parla e non ha lasciato nulla di scritto. Lei vuole nutrirla, i suoi fratelli no. A quel punto si sfalda la famiglia».

Come fa ad avere risposte per tutto?
«Non le ho. Le cerco. Alle elementari ero sempre soprappensiero. La maestra mi diceva: “Ange, se vuoi viaggiare nel tempo, devi viaggiare nello spazio”. È ciò che ho fatto, andando a vedere negli altri Paesi com’è il testamento biologico, che non va confuso con le Dat. Esempio: se hai una polizza sulla vita, l’assicurazione paga in caso di rifiuto delle cure?».

È stipendiato per il suo lavoro?
«I corsi sono a pagamento. Ai privati applico la tariffa delle ostetriche. Faccio il loro stesso lavoro, però alla rovescia. Solo che il mio non so quando finirà».

Non teme che qualcuno la scambi per un accaparratore di eredità?
«Ci sto molto attento. Ho un pessimo rapporto con il denaro. Non sono mai stato nominato in un testamento. Quando a un funerale hanno voluto organizzare una raccolta di fondi per la onlus, ho devoluto il ricavato ai monaci tibetani».

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