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È difficile anche morire …

ANTONELLA CANTON

Di recente mi sono ritrovata ad assistere alla dipartita di una persona che non conosco.
Ero all’ospedale di Borgo Trento a Verona, un giovedì pomeriggio ad assistere mio padre dopo il suo quarto intervento di termoablazione al fegato.

Stavamo serenamente parlando quando la situazione del vicino di letto è decisamente peggiorata.
Era un signore dal colorito verdastro tipico di chi ha una metastasi al fegato. Lui faticava a respirare e l’ossigeno non bastava più per mantenerlo in vita, stava visibilmente soffocando.
Erano presenti la moglie e la figlia che manifestavano angoscia e paura. Stavano ai piedi del letto del morente e si avvicinavano solo per dirgli di usare la mascherina in un certo modo e chiamando in continuazione infermiera e medico.
È iniziata una continua processione di infermiere che somministravano farmaci à gogo. Mi sono messa in ascolto e ho pregato, credo di aver sentito la rabbia di quello “sconosciuto” che forse desiderava che moglie e figlia gli riconoscessero che stava morendo. Forse desiderava un contatto, un saluto di addio che moglie e figlia travolte e paralizzate dal dolore e dalla paura non sono riuscite a manifestare.
Sono rimasta addolorata quando poco dopo è entrato il genero del morente e con tono freddo gli parlava dicendogli che doveva tenere la mascherina in un certo modo, quando in realtà non avrebbe potuto alzare nemmeno un dito. Si rivolgeva al morente con il tono che i genitori stizziti a volte usano con i bambini che non ascoltano.
Ho compreso che la sua non era reale freddezza o cattiveria, tentava in qualche modo di prendere la situazione in “mano”.
Avrei desiderato aiutare e mi sono sentita in qualche modo impotente.
Ad un certo punto le infermiere hanno messo un separé tra lui e mio padre per dare una parvenza di privatezza.
Mi sono rattristata perché non penso sia un’armonica dimensione umana, quella a cui ho assistito; dal canto mio ho continuato a pregare e a visualizzare il morente nel mentre si abbandonava al Padre. Ad un certo punto madre e figlia si sono abbracciate e hanno pianto, lui respirava ancora e subito dopo il silenzio era rotto solo dalla loro disperazione.
Papà mi ha guardato con presenza e mi ha detto: “è difficile anche morire…”; è la prima volta che parla di morte eppure dieci anni fa non gli avevano dato speranza ed è ancora qui con noi.
Ha subito un importante intervento, poi la recidiva e di seguito le termoablazioni.
Io gli ho risposto guardandolo negli occhi e dicendogli: “si papà, a volte è difficile morire, ma possiamo lavorarci…”
Sono rimasta ancora per un bel po' con lui, serenamente e mantenendo un rispettoso silenzio per la dipartita del vicino di letto e i suoi famigliari. Ci siamo lasciati più tardi con un “ciao a domani” e mi sono ripromessa di affrontare questo importante tema, ora che lui ha scoperchiato il tetto.
Ho pensato al significato del termine in sanscrito “Tapah” ovvero calore e mi sono augurata di poter cogliere quel processo interiore per oltrepassare i miei limiti o pigrizie. Questo mi permette di essere maggiormente forte, indipendente e poter così superare disagi o paure.