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Attenzione e distrazione: l'orientamento dell'energia psichica secondo la psicologia dello Yoga per una crescita evolutiva

La società impone sempre più in modo diretto o indiretto modelli culturali, sociali e comportamentali che tendono a distrarre l’essere umano dal vero senso della vita. Subdolamente, in vari ambiti, come quello dei mass-media, della televisione, del cinema, degli smartphone, dei social, delle informazioni incontrollate, siamo sempre più sollecitati verso “altro”. Non solo. Gli eventi catastrofici della vita, i drammi, le tragedie, portano a fuggire il sentire, ovvero a stare in contatto con la componente emotiva, cercando la compensazione in aspetti superficiali ed evanescenti del nostro vivere quotidiano.

Questo ha l’effetto di allontanarci da noi stessi. Un allontanamento estremamente dannoso, poiché aumenta il senso di separazione da ciò che veramente è, enfatizzando l’identificazione con ciò che non è: ovvero il mondo dei sensi e degli oggetti dei sensi. L’effetto è un sottile senso di smarrimento, una sofferenza di fondo, un mal di vivere, che alimenta scelte distruttive esito di mancanza di discernimento e attenzione.

In che modo è possibile tutelarsi affinché possa essere sviluppata in modo armonioso l’attenzione come capacità individuale di orientare l’energia psichica in un senso evolutivo e costruttivo? La psicologia, la filosofia e la spiritualità dello Yoga rispondono a questi quesiti di fondamentale importanza per la vita degli esseri umani.

Nei nostri percorsi di formazione in Counseling dedichiamo molto spazio a questo aspetto fondamentale: colui che si occupa di relazione di aiuto mette al centro la necessità di facilitare il suo assistito a recuperare la capacità dell’attenzione e del discernimento, perché così potrà effettuare scelte evolutive, per il Bene proprio e delle persone vicine.

- Dharana e Dhyana: lo sviluppo dell’attenzione come pratica della concentrazione

Il vero problema per lo sviluppo dell’attenzione è quindi la distrazione. Per essere attenti occorre prestare attenzione a non essere distratti.

Semplice, no?

Pochi fattori influiscono più sulla nostra vita della capacità di attenzione.

Se, per agitazione o torpore, non siamo in grado di concentrare l’attenzione, non riusciamo a far bene nulla. Quando l’attenzione si affievolisce, non possiamo studiare, ascoltare, conversare, lavorare, giocare e nemmeno dormire bene, e molti di noi si ritrovano con l’attenzione quasi sempre compromessa.

L’attenzione incide anche sul carattere e sul comportamento etico. In effetti James pensava che la vera radice del discernimento, della volontà e di un forte carattere fosse la capacità di riportare volontariamente più e più volte a un dato tema la propria attenzione errante. Per secoli, inoltre, i mistici di tutte le tradizioni hanno testimoniato che una mente divagante è facilmente soggetta a cadere nell’adharma, ovvero un comportamento non allineato con l’ordine etico-universale. I saggi dell’India classica, quindi delle Upanidhad, del Vedanta e altri straordinari testi della Tradizione Classica dell’India, ci hanno rimandato alla stretta connessione che sussiste tra Dharma e attenzione.

I grandi geni della storia, quindi non soltanto i Rishi vedici, sono coloro che hanno mostrato una grande capacità di restare concentrati per lungo tempo. (es: Dante poteva leggere per ore in un mercato affollato senza distrarsi).

In sanscrito il termine che si riferisce alla concentrazione e alla presenza è dharana. Patanjali, nel suo Yogasutra dedica parecchio spazio alla definizione di questa importante sfera del sentire profondo, che costituisce la base per la meditazione e il successivo assorbimento (samadhi) nell’oggetto di meditazione. La concentrazione è la base per raggiungere il primo step in un percorso di trasformazione interiore: la consapevolezza.

Introduciamo qui proprio la concentrazione, la presenza e la consapevolezza, come base fondamentale da costruire in un processo di armonizzazione profondo. Possiamo fare riferimento proprio all’opera di Patanjali e alla Bhagavad-gita, perché testi fondamentali dello Yoga.

Quando si fa riferimento alla concentrazione, evidentemente, si sottintende anche l’oggetto di meditazione, che nella fattispecie per un praticante di Yoga è solitamente costituito, ma non necessariamente, da un mantra.

Con “concentrazione”, quindi, intendiamo la capacità di mantenere un flusso costante di “scambio energetico-psichico” con un oggetto specifico. Normalmente, nel caso della meditazione, è un mantra, ma naturalmente per estensione può essere qualsiasi altra sfera della nostra vita: un obiettivo da raggiungere, la cura di una persona, la valorizzazione di qualcuno, la cura della casa, ecc.

La pratica della meditazione attraverso mantra costituisce l’esercizio fondamentale per lo sviluppo dell’attenzione, che si ripercuote in modo naturale su altri contesti della vita.

Infatti, all’interno della Tradizione Yoga i mantra sono strumenti per il controllo e la trasformazione del campo mentale, ovvero facilitano lo sviluppo del processo meta-cognitivo, che è fondamentalmente costituito dallo sviluppo dell’osservatore interiore. La persona diventa testimone dell’evolversi dei processi psichici (pensieri, emozioni), è consapevole che fanno parte di lei, ma non le appartengono, li osserva semplicemente.

Infatti, tanto più siamo identificati e subiamo il fenomeno psichico, tanto più saremo distratti, perché separato da noi stessi. In tali condizioni di identificazione con le funzioni psichiche subiamo il pensiero coatto e l’emotività reattiva, creando continua distrazione.

È importante introdurre subito alcuni aspetti pratici per migliorare la qualità della concentrazione/attenzione, ovvero per superare quel momento di massima difficoltà, che il meditante o l’aspirante meditante incontra in dharana, quando cerca di restringere il campo mentale esclusivamente all’oggetto della propria meditazione, esercizio potente nello sviluppo della capacità meta-cognitiva menzionata.

Più l’attenzione è consapevole e dunque il flusso dell’attenzione ininterrotto, ovvero il fluire ininterrottamente dalla coscienza del meditante sull’oggetto della meditazione, per esempio il Maha Mantra Hare Krishna, più si decrementano le fluttuazioni della mente.

Diminuendo la frequenza delle fluttuazioni, rimaniamo più intensamente presenti nel sé, così facendo si predispone come quando stiamo per ricevere un urto: se siamo preparati l’urto è molto meno forte. Nella metafora, l’urto può essere costituito dall’arrivo di una notizia fastidiosa, da una comunicazione violenta, o da quant’altro possa contribuire, appunto, ad aumentare le fluttuazioni del campo psichico, che solitamente si manifestano attraverso pensieri ed emozioni disturbanti.

Essere preparati significa mantenere tutta la nostra volontà sull’attenzione, su quel flusso di attenzione, ad esempio sul particolare Nome: Hare, Krishna, Rama. Hare è l’invocativo di Hara, è l’invocazione delle energie divine, nel nostro caso le energie d’amore, la potenza d’Amore rappresentata da Shrimati Radharani, che compare ben otto volte nel Mahamantra Hare Krishna. Quindi questo particolare mantra è dominato completamente dalla potenza d’Amore femminile, del femminile spirituale rappresentato da Shrimati Radharani, che è l’espansione d’Amore di Shri Krishna, è Dio al femminile. Non solo la conoscenza, ma anche la memoria, il ricordo appunto delle qualità del Divino, permettono all’attenzione di mantenere un flusso costante.

Ci sono tre grandi pericoli che si presentano specialmente a colui o a colei che non ha ancora superato la fase di dharana: kshipta, vikshipta e mudha. Ne parla diffusamente Patanjali negli Yogasutra nel primo libro, il Samadhi Pada e ne parla Rupa Gosvami, nella sua straordinaria ppera nota come Bhaktirasamrtitasindhu.

In particolare Patanjali descrive 5 stati della mente:

Kshipta (agitato/sparpagliato)

Questo è lo stato mentale più comune in cui si trova la maggior parte di noi durante le ore di veglia. Questo stato è completamente dominato dal guna "rajas". In questo stato, la mente è totalmente irrequieta, salta da un pensiero all'altro, da un'emozione all'altra e da un oggetto all'altro. Si oscilla tra amore e odio, simpatie e antipatie, ecc. Come una foglia svolazza al vento.

Mudha (opaco, sonnolento)

Lo stato mudha è dominato dal guna "tamas" in cui la mente è opaca, assonnata, letargica e priva di vigilanza. Quando si è mentalmente affaticati, si potrebbero alzare le mani dicendo: "Il mio cervello è fritto, ho bisogno di una pausa". Tutto quello che si vuole fare in quel momento è essere un "tele-dipendente" o uno “smartphone dipendente”, uno “smombi” (gli smombi sono i pedoni che ogni giorno avanzano per strada con gli occhi fissi sul display dei loro device, incuranti dei rischi a cui vanno incontro. Camminano per strada con la testa china, lentamente e senza prestare attenzione a nient’altro che non sia il loro prezioso dispositivo mobile), per un po' di tempo, magari annullando la mente in qualche cosa, o semplicemente dormendo. Nello stato mudha non è possibile realizzare alcun lavoro produttivo.

Durante lo stato di veglia, di solito si alternano gli stati kshipta e mudha. Rajas può spingerci ad essere attratti verso un oggetto dei sensi. Tuttavia, se ci viene negato quell'oggetto, tamas può portarci in uno stato di tristezza o addirittura depressione.

Vikshipta (parzialmente concentrato)

Nella nostra ricerca della vita, materiale o spirituale, ci sono momenti in cui il sattva guna inizia a dominare e la mente può trovare momenti di focalizzazione e concentrazione. Tuttavia, le vecchie abitudini continuano ad allontanare la mente dal sattva e tornare a rajas o tamas. Lo stato di vikshipta rappresenta questo allontanamento dallo stato di concentrazione parziale ed è determinato dai nove impedimenti alla concentrazione o vikshepa (Yogasutra 1.30) e dai loro cinque compagni (Yogasutra 1.31).

Letteralmente, una mente sotto l'influenza di vikshepa è chiamata vikshipta.

Nella pratica yoga, ogni volta che ci sediamo per la meditazione, troviamo brevi periodi in cui la mente sembra essere ferma e concentrata sull'oggetto della meditazione. Tuttavia, presto viene distratta da altri pensieri, che si chiama stato vikshipta.

Per completezza riportiamo qui di seguito i sutra XXX e XXXI del Samadhi Pada.

Sutra XXX

vyadhi-styana-samshaya-pramadalasyavirati- bhrantidarshanalabdhabhumikatvanavasthitatvani citta-vikshepas te'ntaraya

vyadhi: malattia (fisica); styana: pigrizia mentale, apatia mentale, procrastinazione; samshaya: dubbio; pramada: negligenza, non perseveranza, inconcludenza; alasya: pigrizia, pesantezza, non operatività, difficoltà a prendere iniziative; a-virati: bramosia (più letteralmente difficoltà nello stare a distanza dal mondo e dai vishaya); bhranti-darshana: allucinazioni, illusioni, visioni distorte (talvolta equiparate al viparyaya); a-labdha-bhumikatva: fallimento nel raggiungere una posizione [ovvero una fase del samadhi]; an-avasthitatvani: instabilità, incapacità di mantenere un livello [di samadhi]; citta-viksepah: distrazioni della mente, ostacoli mentali; te: questi; antarayah: ostacoli, impedimenti.

Traduzione: “Malattia, apatia, dubbio, non perseveranza, pigrizia, bramosia, illusione, incapacità di raggiungere un livello e instabilità nel livello raggiunto. Questi impedimenti costituiscono gli ostacoli mentali”.

Sutra XXXI

duhkha-daurmanasyangamejayatva-shvasa-prashvasa vikshepa-sahabhuvah

duhkha: pena, dolore; daur-manasya: frustrazione, senso di inadeguatezza, malumore, disagio mentale; angam: un pezzo, una parte, un membro; ejayatva: irrequietezza, incapacità di fissare la mente per un tempo sufficientemente lungo, tremiti, notoriamente di origine nervosa, irrequietezza; svasa: respiro inadeguato, senso di soffocamento, respiro accelerato, respiro rallentato, in altri termini una disfunzione respiratoria; svasa e prashvasa: inspirazione ed espirazione; vikshepa: l’elenco dei sintomi, la sintomatologia descritta appartiene al vikshepa, quindi si potrebbe leggere come di vikshepa, i sintomi degli ostacoli; sahabhuvah: i sintomi correlati.

Traduzione: “I sintomi correlati al vikshepa (ostacoli) sono pena, frustrazione, tremori di qualche parte del corpo, disfunzione respiratoria”.

Ekagra (mente unidirezionale)

Questo, secondo Vyasa (commentatore eccelso degli Yogasutra), rappresenta ciò che Patanjali chiama Samprajnata Samadhi (Yogasutra 1.17). In questo stato la mente è completamente focalizzata sull'oggetto di meditazione e l'oggetto diventa completamente illuminato, realizzato e completamente conosciuto. Questo è lo stato che può diminuire i klesha (afflizioni, condizionamenti, sono in numero pari a cinque: avidya (ignoranza), asmita (falsa identificazione), raga (piacere/attrazione), dvesha (repulsione) e abhinivesha (attaccamento al corpo, paura della morte) come indicato in Yogasutra 2.3, sciogliere i legami del karma e avvicinarci allo stato finale di nirodha. In un vero senso yogico, solo la percezione di un oggetto nello stato di samadhi può essere etichettata come "percezione diretta". La normale percezione attraverso i cinque sensi, comunemente chiamata "diretta", è infatti incompleta, errata, alterata e distorta a causa delle imperfezioni dei sensi stessi, della mente e della buddhi in quanto sono dominati dall'ego (ahamkara).

Niruddha (completamente fisso nella concentrazione)

Vyasa (il commentatore più autorevole degli Yogasutra di Patanjali) identifica lo stato di niruddha con ciò che Patanjali chiama Asamprajnata Samadhi (Yogasutra 1.18). In questo stato non possono sorgere nuovi samskara (impressioni psichiche, memorie emotive profonde). Anche se rimangono impressioni passate, vengono rese inefficaci e non possono più causare afflizioni. Nello stato di nirodha la mente continua a fornire la sua normale funzionalità. Tuttavia, in quello stato è completamente sotto il controllo dello yogi e tutte le vritti (fluttuazioni, modificazioni sul piano mentale) che sopraggiungono sono sotto il controllo della pura buddhi sattvica (intelletto) invece di essere controllate dall'ego. Quando lo stato di nirodha è sostenuto a lungo, la mente si dissolve finalmente in uno stato di equilibrio dei guna che, in virtù di una pratica costante e sostenuta dal retto comportamento etico, porta progressivamente alla liberazione finale (Kaivalya).

La suddetta classificazione degli stati mentali di Vyasa ci aiuta ad analizzare il nostro stato mentale (dove sono?) e può aiutarci a fare buoni progressi nelle nostre attività meditative.

Vikshipta costituisce la molteplicità delle distrazioni, ovvero ricordi del tutto inopportuni che si contrappongono alla volontà, all’atto volitivo della continuità del flusso dell’attenzione. Vikshipta è l’insieme di tutte quelle distrazioni di varia provenienza e che derivano da strutture inconsce profondamente radicate. L’altro grande pericolo, come detto, è mudha o vimudha, l’assopimento, una sorta di narcotizzazione, di anestetizzazione, che è un altro espediente della mente per impedire di mantenere un flusso costante di attenzione sull’oggetto di meditazione. Sono entrambi micidiali perché non permettono di superare quella prima e fondamentale fase per il raggiungimento della consapevolezza che è dharana.

Finché la nostra mente oscilla senza controllo tra questi stati di agitazione/distrazione e torpore, fluttuando da un squilibrio dell’attenzione/concentrazione all’altro, non potremo mai scoprire la profondità della coscienza umana, quindi le sue potenzialità, cioè lo sviluppo del potenziale umano ci sarà precluso.

Può la mente affrancarsi in forma irreversibile dalle sue afflizioni emotive, come l’attaccamento, il desiderio, la repulsione, la paura, la depressione, l’orgoglio, l’invidia? Esistono limiti all’amore e alla compassione? Si può affermare che la consapevolezza sia qualcosa di finito ed immutabile?

La mente ha la capacità di farci ammalare, ma anche di farci guarire.

Cosa ci fa guarire?

La compassione.

La compassione è ordine, è frequenza animica nella quale tutti noi siamo immersi. Noi siamo immersi nella compassione, che sostiene (l’amor che move il sole e l’altre stelle), pertanto situarsi in quella frequenza ontologica, pre-esistente è di per sé atto curativo.

Dunque per superare mudha, la tamasicità, la letargia e il rischio di assopimento, la narcotizzazione, l’auto-narcotizzazione, aiuta sviluppare progressivamente compassione.

Su un piano pratico durante gli esercizi meditativi occorre imparare a gestire i tempi, aiuta enormemente mantenere la spina dorsale eretta e una respirazione lenta e profonda possibilmente con il naso cercando di far scorrere il respiro, che è prana, ovvero è l’ingrediente più prezioso, più dell’ossigeno stesso.

La miscela dell’aria respirabile è il veicolo del prana, ma è il prana in realtà che ravviva il soffio vitale, che ravviva la nostra coscienza; la respirazione profonda, la spina dorsale eretta, sono naturalmente grandi aiuti, sono un sostegno decisivo allo sviluppo della concentrazione, soprattutto sconfiggono mudha, l’assopimento, l’addormentamento, la tamasicità, la letargia e l’auto-ipnosi, che è un altro problema non secondario. Entrare, seppure involontariamente in un stato ipnotico auto-indotto, è un ostacolo a dharana che richiede invece il massimo livello di lucidità, di concentrazione.

Per quanto riguarda le distrazioni durante la pratica meditativa, vishipta, diverrà di grande aiuto lo stile di vita che si conduce durante il giorno:

– non portare risentimento o rancore verso chicchessia, – non coltivare sentimenti ed emozioni distruttivi verso alcun essere vivente, – mantenersi amici benevoli di tutti, – cercare di valorizzare le occasioni in cui si incontrano altre persone, – concentrarsi su ciò che è davvero importante, riconoscendo e lasciando andare ciò che distrae.

Così facendo pian piano, la vita diventa sempre più sattvica e le distrazioni scompaiono; ma se durante il giorno si introducono delle infrazioni al dharma, comportandosi in maniera scorretta, la coscienza, che è il più severo tra tutti i giudici, chiederà il conto.

Tra tutte le corti di primo, secondo giudizio, appello o cassazione, in qualsiasi tipo di giudizio noi possiamo incorrere, non sarà mai severo quanto la nostra coscienza, e non occorre preoccuparsi soltanto della coscienza “cosciente”, ma quanto della coscienza inconscia, laddove sono strutturati i condizionamenti profondi, esito di innumerevoli esperienze, le contaminazioni, le infrazioni, gli anartha.

Dunque la vita che facciamo tutti i giorni ha una grandissima influenza sulla nostra capacità di mantenere alta l’attenzione e soprattutto di trasformare, parinama, di attualizzare questa capacità trasformativa della coscienza: da concentrazione a meditazione.

Ecco perché nello Yoga è importante il concetto di sadhana (disciplina), ed in questo senso sono importanti appropriati riti purificatori. Allo stesso tempo, è importante la compagnia di persone che camminano sulla via della perfezione, anche se non fossero ancora giunti ad un elevato livello, ma la loro sincerità nel percorrere quel sentiero è di grande ispirazione e pian piano, gli ostacoli e le distrazioni vengono meno, l’assopimento scompare, e richiamare la coscienza ai più alti livelli diventa un processo sempre più rapido.

 

Andrea Boni