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Centro Studi Bhaktivedanta, scuola che insegna a vivere e a morire

Tanto più il pozzo si fa fondo, quanto più le ali si fortificano al volo.

Mai come in questi "tempi di Covid", di grandi tenebre e luci "rivoluzionarie", si può osservare come sotto il tappeto della vita frenetica dell'uomo occidentale vi sia nascosto il tabù della morte. Il terrore, l'ansia, gli attacchi di panico a cui molte persone sono soggette in questo periodo; i tragici suicidi che stanno aumentando esponenzialmente di giorno in giorno, portano alla luce quanto il pensiero della morte sia stato artificialmente allontanato nell'infallibile epoca della predominanza tecnologica.
Quasi che interrogarsi sul morire sia un'inutile perdita di tempo, una questione in-essenziale (nel senso che non riguarda la nostra più profonda essenza), una quisquiglia filosofica di poco conto; ma soprattutto il domandarsi sulla morte sembra essere qualcosa che fa molta paura, in maniera direttamente proporzionale a quanto ne è profonda la rimozione. Eppure ad uno sguardo attento, che svela il fenomenico, il processo del vivere è strettamente collegato al morire; anzi è proprio nella considerazione della finitezza di tutto ciò che è materiale che la vita, nella sua qualità spirituale, acquista importanza e vigore.
I ritmi frenetici di una società in cui impera la logica del profitto e la spasmodica ricerca di un benessere egoistico individuale, producono uno scollamento dell'essere vivente dal senso profondo della sua vita. Egli è chiamato sempre di più a funzionare come un automa; i valori che vengono propugnati sono l'ambizione, spesso scollegata da un fine etico; l' "homo homini lupus" di hobbesiana memoria; l'efficienza del corpo-macchina quale strumento essenziale al soddisfacimento del proprio ruolo nella società.
Predomina un'azione coatta, senza più lo spazio di una precedente riflessione. Così si fa strada un agire sempre più dissennato, in cui è andato perso il lume di un retto discernimento e quindi la meta dell'essere umano che è Amore e felicità.
Quanto più mi sento calata in questo contesto storico, cercando di mantenere il giusto distacco emotivo, tanto più sono grata al Centro Studi Bhaktivedanta, che provocatoriamente nel titolo ho definito una "scuola che insegna a vivere e a morire". O meglio a lasciare il corpo, quando ormai logoro e inadatto a farci procedere nella nostra evoluzione spirituale.
Più ci si addentra negli insegnamenti tradizionali di questa Scuola, più si arriva a comprendere e in parte a realizzare che non siamo il corpo, bensì esseri spirituali eterni, scintille divine, firmamento di stelle che hanno in sé la propria luce, seppur collegate le une alle altre.
In questa prospettiva, la cosiddetta morte perde qualsiasi visione macabra e ne acquista semmai una di rito di passaggio da una dimensione più grossolana e materiale ad un'altra più incorporea e lieve, nel viaggio di ricongiungimento alla nostra relazione d'Amore con il Divino.

Elisa Brigida