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Una riflessione sull’equanimità: l’ora undicesima, la grazia oltre il tempo

Introduzione

Sono sempre stato affascinato dal concetto di equanimità. Ritengo che il significato che attribuiamo alla parola equanimità in Occidente non sia lontanamente vicino al concetto di sama espresso nella Bhagavad-Gita, nello Yoga di Patanjali, negli Insegnamenti degli Yogi della Bhakti, ma anche negli Insegnamenti di Gesù di Nazareth.

Eppure per chi intraprende un percorso di counseling Bhaktivedanta è così importante comprendere e praticare questa virtù! Con questa riflessione cerchiamo di portare un piccolo altro tassello, perché la pratica di sama è fondamentale nell’ambito del counselig e della mediazione. 

Nel Vangelo secondo Matteo (20,1-16), Gesù ci consegna una parabola che sfida le nostre logiche, i nostri criteri di giustizia e le nostre aspettative religiose. È la parabola dei lavoratori nella vigna. Ma potremmo anche chiamarla: la parabola della grazia sovrana, o la parabola dell’ora undicesima. È il racconto di un Dio che non si comporta come ci aspetteremmo. Un Dio che non paga secondo il merito, ma dona secondo l’amore. Un Dio che non tiene il conto delle ore, ma vede il cuore.

Come ha sottolineato Śrīla Prabhupāda, fondatore dell’ISKCON, “Dio è bhāva-grāhī janārdana”: Egli accoglie il sentimento, non la prestazione. Il tempo non è una misura dell’amore: ciò che conta è la sincerità della resa, anche se all’ultima ora.

 

Il racconto

Un padrone chiama operai a lavorare nella sua vigna, in diversi momenti della giornata. Alcuni all’alba, altri alla terza, alla sesta, alla nona… e infine, all’undicesima ora, cioè quando manca solo un’ora alla fine della giornata. Tutti ricevono la stessa ricompensa: un denaro. I primi mormorano, scandalizzati. Il padrone risponde con dolcezza e fermezza:
«Amico, io non ti faccio torto. [...] Non posso fare delle mie cose ciò che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?»
E Gesù conclude:
«Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi.»

 

Una giustizia che è amore

Questa parabola ci costringe a lasciare la logica del contratto e del merito, per entrare nella logica del dono. Non siamo davanti a una distribuzione equa secondo criteri umani, ma a una rivelazione della misericordia di Dio, che va oltre ogni misura. Il “denaro” dato a tutti non è il salario: è la salvezza, la comunione con Dio, l’ingresso nel Regno, la gioia di essere amati. E questo non si conquista, si accoglie. È un dono immeritato, come insegna anche Marco Ferrini: “L’amore divino non si guadagna, si riceve con gratitudine e si restituisce nella forma del servizio amorevole.”

La Bhakti: Dio che guarda l’intenzione
Anche la Bhagavad-gītā offre parole sorprendenti, in sintonia con questa logica divina. Krishna dice:
«Chiunque mi adora con devozione, anche se ha commesso gravi errori, va considerato un santo. Perché il suo intento è sincero. Costui rapidamente si purificherà e raggiungerà la pace eterna.»
(Gītā 9.30–31)
Nel Bhakti-rasāmṛta-sindhu si ribadisce:
«La devozione pura è indipendente da ogni altra considerazione. Non è subordinata né al tempo né alle qualifiche esteriori. È Dio stesso a essere attratto dal cuore che ama.»
Śrīla Prabhupāda, nel suo commento a questo verso, spiega che “non c’è peccato che non possa essere purificato dal servizio devozionale puro”. Anche chi ha vissuto lontano da Dio può essere completamente accolto, se si arrende con sincerità e amore.
Marco Ferrini sottolinea:
“L’atto più potente non è quello compiuto all’inizio, ma quello che si compie nel momento in cui si decide di aprire il cuore a Dio. La sincerità vince il tempo.”
Proprio come nella parabola, l’ultimo arrivato può essere accolto come il primo, se arriva con sincerità.

 

La lezione per chi accompagna

Per chi si occupa di accompagnamento spirituale, counseling, educazione o servizio, questa parabola è una guida potente.
1. Non è mai troppo tardi
Chi arriva all’ultima ora non è meno degno. Il tempo non è criterio. Il cuore è criterio. Ciò che conta è la disponibilità ad accogliere l’amore, ora.
Śrīla Prabhupāda accoglieva ogni persona, senza giudizio, invitandola a iniziare anche subito, “da dove si trova”, il cammino della bhakti.
2. Non giudicare i tempi altrui
Ogni anima ha il suo ritmo. Alcuni cercano Dio presto, altri tardi. Alcuni crollano e poi si rialzano. Alcuni si convertono in punto di morte. Tutti possono essere accolti.
Marco Ferrini insegna che il counselor spirituale è “uno che sa ascoltare senza interferire nel mistero del tempo evolutivo dell’altro”.
3. Non pensarti “migliore” perché sei arrivato prima
Il rischio di chi è “anziano” nella via spirituale è l’invidia spirituale, o il senso di superiorità. Ma il vero devoto gode nel vedere l’altro essere accolto da Dio, anche se è appena arrivato.
Come ricorda Śrīla Prabhupāda, “chi ha davvero compreso il significato del bhakti-yoga è felice nel vedere che altri si avvicinano a Dio, anche se con poco sforzo apparente”.
4. Imita il cuore del Padrone della vigna
Nel counseling spirituale, il modello è sempre il cuore di Dio. Accogliente, paziente, compassionevole. Un cuore che non respinge, che non confronta, ma offre il dono della presenza, dell’ascolto, della misericordia.

 

Conclusione: Equanimità radicata nell’Amore

La parabola dell’ora undicesima ci invita anche a rivedere il concetto stesso di equanimità. In Occidente, essa è spesso intesa come imparzialità fredda, come equilibrio che evita il coinvolgimento emotivo. Ma nel Vangelo — e anche nella Bhagavad-gītā — l’equanimità autentica ha una radice diversa: l’Amore.
Il padrone della vigna non è imparziale perché è indifferente, ma perché ama tutti incondizionatamente. La sua equanimità nasce dall’agape, l’amore divino che abbraccia il giusto e l’ingiusto, il primo e l’ultimo.
Nella tradizione vedica, sama — l’equanimità — è una virtù fondata sulla comprensione profonda dell’uguaglianza spirituale di tutti gli esseri. Come afferma Krishna:
"Il saggio vede con occhi equanimi un brāhmaṇa dotto e umile, una mucca, un elefante, un cane e un mangiatore di cani."
(Gītā 5.18)
Ma tale visione nasce dalla realizzazione del Sé, cioè dalla consapevolezza che tutti sono anime spirituali eterne, degne della stessa compassione.
Come spiega Marco Ferrini, l’equanimità non è distacco sterile, ma amore equanime, capace di dare a ciascuno secondo il bisogno dell’anima.
Un amore che non misura quanto hai fatto, ma quanto sei disposto ad aprirti.
La parabola dell’ora undicesima, allora, ci insegna che la vera equanimità non è solo giustizia, ma giustizia che trabocca in misericordia. È l’equanimità di un Dio che ama tutti come figli, e che aspetta fino all’ultimo istante per offrire a ciascuno la gioia della comunione con Lui.

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